“Tieni duro, Sami. Ce la devi fare!”

Lo scorso 24 gennaio molte classi del Liceo Augusto, insieme a oltre 60.000  studenti collegati da ogni parte d’Italia, hanno avuto l’occasione di prendere parte a un incontro, per via telematica, con Sami Modiano, sopravvissuto della Shoah.

Sami Modiano nasce da genitori ebrei sefarditi il 18 luglio 1930 a Rodi, all’epoca sotto il controllo italiano, mentre fino al 1912 sotto l’Impero ottomano. Dal 1923 l’isola era diventata ufficialmente italiana, nonché capoluogo dell’arcipelago del Dodecaneso. A Rodi erano dunque presenti diverse comunità: quella ebraica sefardita, quella italiana, quella turca e quella greco-ortodossa, che convivevano pacificamente e in armonia. Tuttavia, nel 1936 fu nominato governatore l’ex quadrumviro della marcia su Roma Cesare Maria De Vecchi, che provvide alla fascistizzazione graduale delle isole. È in questo contesto che nel 1938 gli abitanti di Rodi appresero increduli la notizia dell’emanazione delle leggi razziali. Sami Modiano aveva otto anni e mezzo; era un bambino come tanti altri: studioso, vivace, ubbidiente. Non c’erano differenze tra lui e i suoi compagni di classe italiani, turchi o greci, eppure Sami fu espulso dalla scuola. Suo padre Giacobbe fu costretto a lasciare il proprio lavoro e a vendere i propri beni per il sostentamento della famiglia. La situazione precipitò ulteriormente in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, quando le isole vennero occupate dai nazisti, coadiuvati peraltro da molti italiani fascisti. Il 13 luglio 1944 i capifamiglia della comunità ebraica di Rodi vennero radunati presso una grande caserma. I loro nomi erano già registrati e schedati, i documenti furono sequestrati,  le loro proprietà requisite. I nazisti non li minacciavano per non suscitare reazioni: altrove era necessaria manodopera e dunque si richiedeva la collaborazione della comunità ebraica. Così i nazisti ordinarono di  preparare bagagli essenziali, contenenti cibo e beni per partire verso una destinazione ignota. Il 23 luglio oltre 1800 ebrei di ogni età salparono dal porto di Rodi in navi cargo già utilizzate per il  trasporto di bestiame. Poco prima i nazisti avevano fatto suonare la sirena che annunciava l’inizio di un bombardamento, in modo da radunare il resto della popolazione rodiota nei rifugi antiaerei e non farla assistere alla partenza. Diverse persone  morirono durante il viaggio che si svolse in condizioni pessime, tra sporcizia, fame, caldo e sete. Per ordine dei nazisti, i cadaveri dei deceduti furono gettati in mare. Sami aveva appena quattordici anni e i suoi occhi avevano già visto atrocità e ingiustizie terribili. In quei momenti, ha confessato, ringraziava Dio per aver fatto sì che sua madre Diana fosse morta tre anni prima e che, dunque, non avesse dovuto vivere quell’incubo.

Dopo una settimana le navi attraccarono al porto del Pireo, dove poi i prigionieri sostarono nella caserma di Aidari. Lì si manifestò in modo ancora più evidente il comportamento spietato e crudele dei nazisti, che richiamavano all’obbedienza a colpi di manganello. Sami ha ricordato, ad esempio, l’episodio di un uomo separatosi dagli altri per bere presso una fontanella e ucciso senza pietà  per non aver chiesto il permesso di allontanarsi.   Dopo una settimana, il viaggio riprese e proseguì a bordo di treni bestiame, sempre in condizioni igieniche terrificanti. Il 16 agosto 1944, all’alba, il treno si fermò presso una stazione ferroviaria: quella di Auschwitz, diversa dalle precedenti per lo squallore e per la presenza di filo spinato e cani che abbaiavano. Senza saperlo, i prigionieri percorsero la rampa della morte. Una volta scesi dal treno, furono smistati e separati in base al sesso. “Finché eravamo tutti uniti ci sentivamo al sicuro” racconta Sami “È stato difficilissimo separarsi dai propri amici e parenti. Ricordo ancora gli occhi di mio padre mentre tre nazisti cercavano di portare via mia sorella Lucia”. Giacobbe fu massacrato di colpi dai nazisti, ma non si lamentava per il dolore fisico. In silenzio seguiva con lo sguardo sua figlia sedicenne che si allontanava. Sami rimase fra gli uomini con suo padre e, in fila con gli altri, passò quindi davanti a dei medici che, senza neppure guardarli in faccia, indicavano a ciascuno di dirigersi a destra o a sinistra. L’80% degli ebrei di Rodi giunti ad Auschwitz fu inviato a sinistra, verso le camere a gas; soltanto il restante 20% fu mandato a destra e dunque destinato ai lavori forzati. A questo punto, sulla pelle dei deportati vennero tatuati dei numeri, che sarebbero divenuti la loro nuova identità. Da quel momento i loro nomi non avrebbero avuto più alcun significato perché non sarebbero più esistite persone, ma soltanto “pezzi” numerati. La dignità umana veniva poi ulteriormente violata dalla rasatura dei capelli, dalle perquisizioni e dall’ordine di indossare le tristemente note uniformi a righe. Dopodiché si era pronti per entrare a far parte della fabbrica della morte, si diveniva parte di un ingranaggio in movimento continuo. Sami si occupava di tagliare la legna, trasportarla verso i forni crematori tramite carri trainati da esseri umani, rimuovere i cadaveri dei suicidi dal filo spinato e scaricarli davanti ai forni: era costretto ad aiutare i nazisti a disfarsi dei suoi stessi fratelli ormai morti. Intanto, ogni sera lasciava la baracca 11 per dirigersi verso la 15, dove incontrava suo padre Giacobbe. “Papà si affliggeva per come ero ridotto. Diceva sempre: “Lamia preoccupazione siete voi”, con il pensiero sempre rivolto anche a mia sorella Lucia” racconta Sami. I primi di settembre, Sami confidò a suo padre di voler vedere sua sorella, come chi sa che non c’è altra via d’uscita al di fuori della morte e desidera dunque rivedere la persona più cara. Così si recò verso la zona riservata alle donne e un giorno,  oltre il filo spinato, distinse  una mano che lo salutava. Quando finalmente rivide Lucia, Sami stentò a riconoscerla,  sfiancata com’era dalla magrezza, dalla fame e dalla stanchezza. Eppure, nonostante lo stravolgimento della sua fisionomia, per Sami Lucia era rimasta la stessa mamma-sorella che era a Rodi, pronta a cedere al fratellino anche il suo misero rancio. Qualche giorno dopo, però, Lucia non si presentò più agli incontri. Sami comprese subito che non l’avrebbe più rivista; quando lo comunicò a suo padre, lui rimase in silenzio. Tre giorni dopo disse al figlio che l’indomani sarebbe andato in ambulatorio, il che ad Auschwitz significava andare incontro a morte certa. “Quando domani verrai qui, io non ci sarò più” rivela Sami riportando le parole di suo padre, l’unica persona cara che gli era rimasta al mondo. Mentre suo padre lo benediceva, Sami lo supplicava di non andare. “Tieni duro, Sami. Ce la devi fare!” si raccomandò Giacobbe.  Quella fu l’ultima volta in cui Sami vide suo padre.

Sami ce l’ha fatta. A tenerlo in vita anche nei momenti più duri, la promessa fatta a suo padre: sopravvivere. Difatti, dopo essere rimasto solo, ha dovuto affrontare ulteriori drammatiche situazioni. Giunto ormai allo stremo delle forze fisiche, era stato selezionato per le camere a gas. Miracolosamente, però, si verificò un’improvvisa carenza di personale e dunque Sami venne inviato a scaricare il carico di un treno. Intanto, i nazisti erano intenzionati a distruggere Auschwitz affinché i Russi non potessero reperire prove del genocidio ebraico. I deportati si sarebbero spostati da Auschwitz ad altri campi di sterminio nel Reich: questo spostamento, avvenuto in condizioni drammatiche per il freddo e la debolezza dei prigionieri, è appunto noto come marcia della morte. Sami, salvatosi dalle camere a gas, vi prese parte nel gennaio 1945. Stremato, già nel tragitto tra Birkenau e Auschwitz cadde a terra. “Papà scusami, non ce la faccio più” pensava mentre aspettava di essere ucciso dagli aguzzini nazisti, sognando di porre fine alle sue sofferenze e di raggiungere finalmente i suoi cari in cielo. Ma nessuno sparo lo colpì; anzi, due prigionieri lo sollevarono e lo trascinarono per deporlo, poi, accanto a un gruppo di persone già morte che giacevano a terra : un atto di solidarietà in quei frangenti rarissimo. Sami perse i sensi e quando si risvegliò era circondato da cadaveri presso un fabbricato abbandonato. Rifugiatosi lì con le sue ultime forze, venne poi trovato dai russi, entrati nel campo,  che lo trassero in salvo curandolo. “Quando mi sono svegliato e ho visto la dottoressa russa che mi sorrideva, felice per avermi salvato, mi sono sentito in colpa. Mi sono chiesto “perché io”? Questi punti interrogativi te li porti dentro per sempre” ha dichiarato Sami.

 “Io sono ancora ad Auschwitz, non potrò mai lasciare quel luogo. Un sopravvissuto non è una persona normale: io ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Non è facile per me, ma grazie a Dio ho trovato una risposta a tutti quei punti interrogativi. Me l’avete data voi”. Commosso, Sami ha rievocato anche il ricordo della sua prima esperienza da testimone: quando, nel 2005, si è recato con 300 ragazzi ad Auschwitz, sollecitato dal grande amico Piero Terracina, conosciuto proprio in quel campo di sterminio. “Quando ho visto quei 300 ragazzi piangere con me, ho capito che dovevo rompere il silenzio perché Dio mi aveva scelto per questo. Finché Dio mi darà la forza io ricorderò ma, ragazzi, siete voi che dovete fare in modo di non dimenticare!”.

Davanti al coraggio e alla forza di persone come Sami, noi oggi abbiamo il dovere di ricordare e tramandare storie come la sua per evitare che si ripetano in futuro. Sami è sopravvissuto alla Shoah , ma altri milioni di persone non ce l’hanno fatta.

Autore

Diletta Tomassi

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