Una placida oscurità calava dalla finestra, cancello di un cielo senza luna. La stanzetta bianca, spoglia e scarna guardava maestosa un corpicino scoperto e ghiacciato buttato di traverso su un letto in ferro. Le gambe del letto reggevano a malapena il peso del materasso un po’ ingiallito. Un popolo di animaletti di peluche guardava di sotto in su il soffitto alto alto. Chi stava a metà di una capriola, chi era rimasto schiacciato e inorridito tra le braccia magre della bimba, chi stava per fare capitombolo oltre la sponda del letto. La finestra grande grande prometteva dei riflessi dorati durante il giorno e un albero di magnolie che le sorgeva accanto bei profumi e riflessi di ombre. Su una sedia sbilenca di un bel nero profondo stavano cento e mille chincaglierie di porcellana: bambole e animali esotici e sacchettini profumati alla lavanda. Accanto al letto, su un pavimento piastrellato di rosso, un libriccino di storie per la buonanotte tutto sgualcito, stretto infinito volte tra mani piccole e impiastricciate di colore. La dormiente stava a metà tra un lenzuoletto giallo e uno rosa che scalciati e scalciati ora penzolavano fuori dal letto scoprendo il materassino ruvido.
La casa bianca era maestosa e dai muri spessi. Se bussavi con la punta dei polpastrelli contro il muro grigio chiaro della cucina però ne usciva un rumore sordo ché dietro un sottile strato di calce si nascondeva il vuoto nero delle ragnatele ingarbugliate. Ai lati del caminetto invece, con i mattoni di un rosso inscurito dalla fuliggine il rumore era forte e chiaro, come di batteria. Dopo quella notte ogni giorno la stanza e la casa diventarono più belle. La bimba portò tantissime margheritine da mettere in vasi bianchi e rosa e il suo papà costruì uno scaffaletto per i suoi gingilli. La bambina si chiamava Nina ma tutti creavano vezzeggiativi e nomignoli e il nome da subito divenne Ninì. I pochi che la conoscevano, per lo più adulti che poco se ne occupavano con interesse la descrivevano come molto seriosa, un po’ magrolina e dagli occhi schivi ma bella e in salute.
La madre suonava il piano e lavorava in un teatro dove accompagnava gli esercizi delle ballerine adattando a valzer o ad adagio le musiche più famose. Anche a casa stava tutte le sere al piano, a strimpellare Chopin o Liszt cambiando il giro d’accordi e i fronzoli.
I primi tempi si teneva Ninì sulle gambe e lì lei aveva imparato il suono delle prime note e accordi. Ma quando era diventata grande abbastanza da posare le sue manine sulla tastiera era stata sfrattata e mandata a giocare in giardino. In giardino trovava molti alberi e molti fiori. Ce n’erano alcuni bianchi, bassi bassi, di cui non si distingueva il polline dai petali sottili. Delle api cicciotte vibrando si posavano gentili e si poteva immaginare un loro sorriso materno. Poi un ulivo tozzo, mal potato, casa di mille giochi e dei secchielli all’ingiù disposti in bell’ordine dal cancelletto al portone d’ingresso. Ogni anno Nina diventava più alta e la distanza tra un secchiello e l’altro andò accrescendosi. Ci passeggiava avanti e indietro con le gambette che crescevano storte, magre e bianchissime come il latte.
Suo padre, un’estate, venne chiamato a lavorare in una città lontana cinquecento chilometri sei giorni su sette come tecnico di cantiere. Aveva i capelli neri e delle sopracciglia folte piegate all’ingiù. Lo sguardo severo o assente o giocoso. Il suo bel nero cambiava assieme al suo umore: nero come la notte, gli anfratti o il caffè. Nina la domenica andava al parco, quando nella sua casa erano invitati signori e signore in ghingheri a prendere il caffè o parlare di musica. Il papà di Ninì ogni anno si faceva mandare degli scatoloni di caffè nero dall’estero. Lo preparava aggiungendoci degli aromi ogni volta diversi, molto intensi ed esotici. I muri bianchi rimanevano impregnati di questi odori per tutti i giorni a venire sino alla domenica successiva. Come se vi fossero degli incensi perennemente accesi.
Nina aveva dei pantaloni a righe verdi su sfondo arancione pastello. Li usava nei giorni di festa e quello era il solstizio d’inverno. La mamma aveva invitato dei signori nel prato che cresceva dietro il centro sportivo. Ninì non poteva andare al parco e doveva aiutare a riempire i panini. Nell’erba tutto taceva. Si chinava su steli che parevano bianchi. L’ultima pioggia violenta rimaneva impigliata sul verde sgraziato e muto. Tremando dal freddo Ninì si levò il giaccone e lo posò sul prato. Papà le aveva insegnato la capriola. Si tenne con le mani forte sull’erba bagnata e fredda. Il maglioncino verde bottiglia volteggiava mischiando con il suo l’altro verde più chiaro. Con quel metodo e un sorriso via via più largo e prepotente sul viso percorse come un aratro tutto il campo. L’erba le sfuggiva dagli occhi. Con le mani verdi e piene del profumo d’inverno corse verso il tavolo dei dolci. Si accesero i fuochi. Vibravano al vento gelato della sera. La luce era scomparsa nella tomba della montagna. Le fiamme si tingevano di giallo e di verde. Chiusosi il monte sopra il sole; dei grandi riportarono la piccola a casa.
I secchielli che costeggiavano il selciato non si vedevano alla luce di una timida luna, sorriso storto a bocca chiusa. Il selciato tagliava a metà il giardino di cui si distinguevano solo le ombre. Il lampione lasciato in un’altra via girato l’angolo. Ninì strascicava i piedi, gli adulti non l’avevano voluta prender su in braccio. La casa bianca era solida e ferma nella notte ma parevano, gli infissi, degli occhi stanchi, come se tutto quel bianco volesse crollare accasciandosi sulle colonne portanti. Comparve sulla porta una figura. Un aureola intorno alla testa di un rosso vivido e vivo. Una mano dalle dita lunghe teneva una sacca di tela e questi tre oggetti, aureola, mano e sacco, dai cui spuntavano delle bambole, erano le uniche cose a brillare nell’atrio. La signora Camilla, con un piccolo scambio, condusse Ninì nella casa.
Al prossimo mese!