Davanti al portone era appesa una corda che fungeva da campanello e il rumore che ne usciva fuori, per una qualche strana disposizione di vuoti e spazi pieni, era fortissimo. Ricordava quello delle campane. Subito dietro la porta c’era un grande quadro blu e giallo di una scala altissima. Si sporgeva dalla rampa una donna-burattino tutta verde, schizzata come se fosse rimasto poco tempo e colore; sembrava provenire dal mondo delle fiabe. La signora Camilla poteva essere scambiata per un personaggio di quei dipinti, che tappezzavano tutta la sala sotto le scale. Tuttavia aveva una cromia completamente diversa: i capelli, che tingeva a ogni luna, erano rossi come quelli della Sirenetta; la faccia era rotonda con due guance piene e incipriate; gli occhi erano di un vivido marron nocciola. Una mattina Ninì aveva scorto, sul viso della donna-burattino nel dipinto, una lacrima blu, che le sfiorava, sul finire del suo giro, la grande massa verde del vestito. Ninì ebbe molta paura di quella lacrima, emblema di un dolore sconosciuto, che immaginava fosse stata pitturata da una mano grigia e avvizzita. Le lacrime, come un cucchiaio in ferro arrugginito, colsero un po’ di quei colori dalla tela semivuota sotto il petto acerbo di Nina. Era stata la sua prima esperienza con le lacrime; lacrime di disperazione pervenutale grazie a una mano grigia da un dipinto blu e giallo. Quella, caduta sul tavolo della cucina dov’era seduta la donna dai capelli rossi, fu la seconda. Ninì aveva conosciuto la signora Camilla la sera di un concerto. Non riusciva a prendere sonno nella casa con le luci tutte spente, avendo da poco preso a camminare. La signora Camilla, chiamata per prendere un tè, si era poi fermata tutta la notte. Camilla conosceva i genitori dal liceo, quando sua sorella, prima di cambiare paese, era la migliore amica della mamma oltre che compagna di corso al conservatorio. Una foto sul caminetto ritraeva Camilla con i capelli straordinariamente castani e tagliati corti con in braccio una Nina che guardava di lato e tendeva le braccia all’obiettivo. La signora Camilla l’accompagnava alle volte al parco giochi, dove un signore dal naso schiacciato e le guance buffe puntinate da lentiggini scure vendeva in un chioschetto all’entrata gelato e zucchero filato. C’erano sempre venti o trenta fra ragazzi e bambini dalla faccia grande e golosa. Con il gelato ancora nella mano Ninì correva sull’altalena. L’altalena era azzurra, le catene senza una macchia di ruggine, pitturate del tenue cielo di giugno. Camilla rimaneva in silenzio, a guardarla con il viso a cuore, salutare la ghiaia con i piedi e andare avanti e indietro nel cielo della domenica, dove tutti gli uccelli pareva che cantassero perché Ninì quel giorno poteva andare al parco e saltare sull’altalena. Lì, nel tepore dei cigolii discontinui, riprendeva e continuava i suoi sogni notturni, vividi e fascinosi che non la abbandonavano mai nelle notti placide e dense. La signora Camilla usava uno shampoo al muschio per i suoi capelli. Nina lo sognava sempre, lo ritrovava nei vestiti e nei mobili più disparati, un odore che sapeva di lontano, di foglie cadute e bussole naturali. Però non sognava la signora Camilla, perché nelle sue immaginazioni entravano sempre e soltanto le cose materiali, forse per una qualche oscura paura per gli esseri animati. Così le persone, scomparse come i papaveri sui prati a giugno, diventavano giocattoli o magiche essenze nell’aria. Tutto il suo giocare era sempre invaso dall’odore pungente del muschio, un vento incolore silenzioso. D’estate capitava che Ninì dovesse rimanere da sola e allora Camilla la portava nel suo appartamento, insieme alla borsa dei giochi a tracolla, su su per delle scale piastrellate con i quadrati rosa. Abitava in un palazzone giallo, al limitare di una traversa della strada dove viveva Ninì, su fino al quinto piano e in un bilocale bianco bianco, un po’ triste e assiepato di piante. Ogni pianta aveva un suo significato ed una sua emozione; a ogni pianta veniva data acqua secondo un calendario complicatissimo appeso davanti al bagno. Il sasso saltò rasentando l’acqua tre volte prima di sprofondare (TONF!) in uno schizzo più cupo. Un giorno al lago, Camilla leggeva ad alta voce il libro di Peter Pan e a Ninì sembrava di inseguire quel piccolo bambino volante su per delle scale e giù per uno scivolo ad ogni capoverso. L’acqua era troppo torbida per tentare un bagno, le foglie rumoreggiavano sotto i piedi, il sole cantava dei raggi tra gli alberi ora in autunno. All’appartamento, la sera, e per molte sere a seguire Ninì ebbe da stupirsi, in mano una bambola o una tessera per giocare a domino, i raggi contenti a coricarsi, alla voce della signora Camilla che piegava in tono amaro. Guardava fisso sopra il lavabo, dentro un tagliere che sgocciolava in verticale. La mano a tenere la cornetta rossa del telefono a muro. Poi riattaccava, ora dolce dolce, ora con forza prepotente e dispiaciuta, come fosse interdetta dalla sua stessa violenza. TONF! Le sere che Camilla teneva il telefono e guardava il tagliere, Ninì, nello studiolo con la branda blu e i suoi giochi sparsi, dove dormiva nelle notti estive, finanche autunnali, tirava fuori la sacca marrone dei giochi e giocava. Di là Camilla si allontanava, tra fresche lucentezze di muschio, nel mondo a figure nere oblunghe dei grandi. Una sacca di tela grossolana; gliela aveva regalata una volta la befana che si era seduta con le gambe secche incrociate su uno sgabello all’incontrarsi del parco giochi e di una rotonda. Stretti lì dentro la bambola, originaria padrona, e, legati tra loro dallo spazio irrespirabile, animali esotici e nostrani aggruppati con gli occhi stralunati. Quella sera il filo rosso che disegnava sul volto di pezza la bocca vogliosa della bambola si era staccato e pendeva a sinistra, una smorfia antipatica storta. Ninì raggiunse Camilla al suo tavolo nero in cucina, in tempo per sentire e spiare i singhiozzi che ultimi cingevano la sua grande amica. La lampada era insistente sul tasto del giallo lampante. Gli occhi di Ninì vedevano blu, mentre gli occhi di Camilla, piegati, vedevano nero con il bruno delle ciglia. La finestra recitava il nastro di stelle. Il giorno dopo le stelle volavano quasi basse e Ninì tornò a casa. La mamma disse che era morta la madre della signora Camilla. Se la ricordava: lei era giovane e stava in conservatorio, in uno scialle fiorellato rosa antico e già non più avvezza all’uso delle gambe, che restava in una sedia grande grande a girare intorno con lo sguardo. Ninì sognò un grande candelabro con l’oro finto e delle luci come dei rubini e i muri tappezzati di una stampa rosa e l’odore di muschio mortificato nel vasto freddo di un odore lontano e familiare. Un profumo di chiesa e fiori e pulizia, della sala con l’altare pieno di robivecchi un giorno di gennaio. A gennaio Ninì aveva viaggiato tutta la notte oltre le montagne per visitare la sua nonna e non rendere vano questo legame mai vissuto, in un’ unica visita fredda, gelata, vestita con molta pompa e rispetto. I singhiozzi scolorivano il rosso lucente di Camilla, seduta dando le spalle guardando fissa il tagliere o le sue venature di legno bianco. Cucchiaio in ferro arrugginito. Giorno del pesce, passeggiata all’ombra delle querce, il sole sudore lontano oltre l’ombra delle chiome alte per gli alberi nudi sino ai tre metri d’altezza, gli appartamenti nelle case a tre piani, le nuvole scoppiate, due facce, chiaro. Oltre un cancelletto “attenti al cane” uno slargo, la lavatrice a gettoni e un negozio ago e filo. Dall’altra parte un muro che si alzava fino al busto della mamma di Ninì, che la trascinava. Più discosto il muro veniva, alzatosi per circa dieci metri – sopra gli occhi e i capelli – a lasciare il posto ad un enorme cancello in ferro battuto. Oltre, una scalinata dalle righe severe e un palazzo dalle finestre contornate rosso mattone. Le bandiere ai lati di un balcone al centro della facciata, un piccione appollaiato su quella europea, un aria inespressiva come il palazzo, chiuso. Ninì aveva sei anni, e quel palazzo e la scalinata non sarebbero più sembrati chiusi.