KILLERS OF THE FLOWER MOON – Un film di Martin Scorsese

Anni 20′: le proprietà del popolo degli Osage sono ricche di petrolio e ciò rende la popolazione estremamente ricca. In molti cominciano a desiderare queste ricchezze, tra cui William K. Hale. Il nipote di quest’ultimo una volta tornato dalla guerra verrà indotto dallo zio a sposarsi con la nativa americana Mollie per prendere parte delle sue ricchezze. Il protagonista, a differenza dei vari gangster o broker dei capolavori scorsesiani, non sembra essere pienamente cosciente di quello che porta via alle persone che lo circondano per arricchire se stesso e i suoi complici. Egli, rispetto ad altri personaggi della filmografia del regista, non ha quella diabolicità intrinseca che permette loro di condurre una vita agiata e lussuosa, tra risa e teste spappolate, senza provare il minimo rimorso. Al contrario, la sua quotidianità, e al contempo la sua coscienza, verrà costellata di timori e dolori, e non basta il suo più volte enunciato amore sconfinato per il denaro per evitarli. La sua parabola discendente inizia in modo analogo a quello di “Quei Bravi Ragazzi” o di “Wolf Of Wall Street” ma, a differenza di Henry Hill o di Jordan Belfort, Ernest è esente da quella fiera e perversa consapevolezza di star agendo in maniera egoista e, per quanto rincorra vizi e denaro, è perpetuamente manipolato dalla mefistofelica figura dello zio, cosa di cui il pubblico si accorge, al contrario di lui. In più il suo sentimento d’amore nei confronti di Molly (sposata inizialmente per convenienza) è autentico e sincero, e come spesso accade nel cinema di Scorsese innamorarsi sarà un errore fatale e doloroso. Di conseguenza il tono del film (che diviene dimesso e tragico) rispecchia la manipolabilità del protagonista, che non si gode il libertinaggio e la sfrenatezza di una vita criminale, perché forse riesce a comprendere dove si trova il confine tra bene e male, anche se non è in grado di prendere posizione, cosa che farà solo nell’epilogo quando ormai sarà troppo tardi e la sua coscienza sarà ormai pregna di marcio. L’opera pullula di autocitazioni: la sorella di Molly non deve essere seppellita con la bara aperta perché ha la faccia completamente deturpata per un proiettile, come Tommy De Vito in “Quei Bravi Ragazzi” e, in generale, l’epilogo da thriller giudiziario ricalca parecchio la struttura di quest’ultimo con alcune soluzioni. Scorsese, come al solito, nel suo cinema si cala da vero antropologo nella cultura che vuole raccontare: tutti gli usi, i costumi, le usanze e le credenze della popolazione degli Osage vengono captati con meraviglia e sincera curiosità dalla cinepresa e dall’occhio del regista, che al contempo si concentra (come in “Gangs of New York) sulle radici della storia dell’America; sin dagli albori gli americani hanno cercato di accaparrarsi ricchezze a spese degli Indiani che hanno negli anni subito oltraggi e violenze. Gli omicidi gangsteristici si susseguono senza eccessivi ricorsi all’ironia, anche se non manca qualche dettaglio raccapricciante capace di catturare lo spettatore tra il disgusto e un timido accenno di sorriso, nonostante spesso sia l’orrore per la dirompente forza distruttiva dell’avidità a prevalere. Affascinante l’utilizzo del gufo, che nella cultura degli Osage, appare come una visione poco prima della morte che nella claustrofobica realtà raccontata è sempre alle porte. Vedere costantemente per quasi la totalità della durata della pellicola il personaggio di Molly (mostrato come forte e determinato nel primo atto del film) relegato al letto, in preda alle malattie, ai lutti e ai veleni somministrati provoca un senso di impotenza nello spettatore, che non può fare nulla per svegliare dal torpore e dalla manipolazione il personaggio principale, l’unico che potrebbe fare qualcosa. Meraviglioso il finale, in cui genialmente ci viene offerto un resoconto storico di come la faccenda poi si sia evoluta. Quello che ne viene fuori è un quadro amaro e disincantato della storia, in cui la gente finisce per “dimenticare” i veri carnefici e la giustizia viene rovesciata a favore di un esito ben più beffardo e tutt’altro che consolatorio, se si toglie l’ultima magniloquente inquadratura dove si può cogliere una delle poche note di speranza dell’opera. Interpretazioni magistrali e sontuoso comparto tecnico. Da vedere assolutamente.

Voto: 9

Autore

Jacopo Carosi

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