DEMOCRAZIA – Meglio i πoλλoί o gli oλίγoι?

Quella di Atene fu la prima democrazia del mondo, ovvero una forma di potere in cui il kràtos è nelle mani del dèmos, che lo esercita nel rispetto dell’ideale di “isonomia”, ossia parità di tutti i cittadini di fronte alla legge, e mediante la partecipazione diretta e attiva da parte della cittadinanza (maschi adulti di status libero) alla vita politica, tanto nell’assemblea quanto nelle varie istituzioni e cariche pubbliche. Dunque, la sfera pubblica non era affatto scissa da quella privata: il πολίτης, infatti, proprio in forza del principio di “isegoria” (ìsos, “uguale”, e agorèuo, “parlare in pubblico”), era parte integrante e unità attiva all’interno del processo decisionale della πόλις. Democrazia in Grecia però non era solo sinonimo di potere al popolo sic et simpliciter. Si occuparono della questione molti filosofi, tra cui lo stesso Platone, che criticava la democrazia in quanto forma di governo ove i cittadini erano liberi di fare ciò che volevano e si lasciavano andare a desideri smodati, tanto è vero che la sua forma degenerata corrispondeva alla “tirannia”. Quest’ultima aveva origine dall’eccessiva libertà concessa al demos, in gran parte incompetente, al cui vertice v’era appunto un tiranno, circondato da personaggi di dubbia natura, pronti a tutto pur di mantenere il potere. Platone preferisce invece una sofocrazia: un governo dei pochi, eccellenti non per ricchezza, ma per sapienza, uomini cioè in grado di perseguire gli ideali di giustizia e di virtù. Aristotele, d’altro canto, ritiene che la forma migliore realizzabile (realismo politico aristotelico) dello Stato sia una commistione fra oligarchia e democrazia, la “politia”, un governo di tipo democratico in cui prevalga la classe media, che provveda alla prosperità materiale e alla vita virtuosa e felice dei cittadini. Pertanto, già all’epoca fiorivano i primi interrogativi circa la reale praticabilità di un sistema democratico, e se questo fosse effettivamente in grado di garantire il bene e lo sviluppo di una comunità.

Con il passare del tempo si susseguirono diversi ordinamenti e numerose modalità di gestione del potere, dall’Impero Romano al sistema feudale del Sacro Romano Impero, tutte accumunate da una certa distanza rispetto a quelli che furono gli ideali democratici ateniesi, nonché ai nostri. Se facciamo un ingente salto temporale, giungiamo nel 1215, anno in cui venne concessa dal re Giovanni d’Inghilterra la celebre Magna Charta Libertatum, redatta dall’Arcivescovo di Canterbury Stephen Langton, al fine di raggiungere un punto di accordo fra gli interessi del sovrano e quelli dei nobili, cosiddetti “baroni”. Venivano in questo modo riconosciuti per iscritto i diritti dei feudatari, della Chiesa, delle città inglesi e degli “uomini liberi”, nei confronti del sovrano, i cui poteri peraltro furono ampiamente limitati. L’importanza di questa Carta risiedeva inoltre nella garanzia che essa assicurava circa l’inviolabilità dei diritti individuali, si pensi al principio dell’Habeas corpus. Va però considerato che inizialmente tali privilegi e tali libertà costituzionali interessavano esclusivamente la nobiltà e i baroni, benché più volte nel testo si faccia riferimento a “uomini liberi”, e che la Carta, proprio per questa caratteristica, era molto assimilabile ad una sorta di contratto feudale evoluto, che però, ben presto, divenne il fondamento del costituzionalismo moderno. In un percorso di progressivo sviluppo del concetto di democrazia, non è possibile non menzionare la Costituzione Giacobina del 1793, redatta dalla Convenzione Nazionale, assemblea parlamentare eletta a suffragio universale maschile che proclamò la nascita della Repubblica. Non si parlava più di “sovranità nazionale” ma di “sovranità popolare”, in forza della quale ogni cittadino aveva il potere di esprimere un voto a suffragio universale e diretto, inoltre la Carta abrogava il principio di separazione dei poteri, e introduceva per la prima volta l’istituto del referendum.

Precedentemente, sempre in Francia, era stata approvata il 4 settembre 1791 una prima Costituzione francese che, in ottemperanza a quanto sancito dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, ridisegnava il titolo di re, non più come re “di Francia” ma “per grazia di Dio e Costituzione dello Stato, re dei Francesi”, ed enunciava il principio della separazione dei tre poteri, quello legislativo affidato all’Assemblea Nazionale Legislativa, quello esecutivo al Re, il quale manteneva il diritto di veto sospensivo ma solo in talune circostanze, e ai suoi ministri, e quello giudiziario a magistrati eletti. Infine, dopo varie altre Costituzioni, francesi, una spagnola, una siciliana, una svizzera etc., giungiamo alla nostra Carta Costituzionale, quella della Repubblica Italiana. Il primo articolo della nostra legge fondamentale sancisce il principio democratico come fondamenta di tutti i valori costituzionali, in base al quale la Costituzione consegna nelle mani del popolo la sovranità, la quale, però, a sua volta dovrà essere esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. I padri costituenti non facevano altro che prendere atto del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, cercando di costruire un apparato legislativo in grado di tutelare la Nazione da un possibile ritorno al Fascismo. Proprio in questo senso la Repubblica riconosce infatti il diritto da parte di tutti, in condizioni di parità, di prendere parte alla vita politica e sociale, nonché un’ampia autonomia personale, necessaria per la formazione del libero pensiero. In materia di democrazia va poi operata un’importante distinzione fra democrazia diretta e rappresentativa. Il nostro ordinamento politico è improntato a una democrazia rappresentativa nella forma di Repubblica parlamentare, basata ovviamente sulla separazione dei poteri: il Parlamento esercita il potere legislativo, al Governo è affidato il potere esecutivo e infine la magistratura esercita il potere giudiziario. Concentriamoci per un attimo sui primi due. Secondo il bicameralismo paritario o perfetto, il Parlamento si suddivide in Camera dei Deputati (400 Deputati) e Senato della Repubblica (200 Senatori), entrambe in possesso degli stessi poteri e delle stesse competenze.

Nel Governo italiano, invece, si distinguono tre organi: il Presidente del Consiglio dei Ministri, i ministri (15 Dicasteri) e il Consiglio dei Ministri. Il Governo, inoltre, dipende dalla fiducia delle due camere del Parlamento e ha il potere di emettere decreti-legge solo in caso di emergenza e a patto che vengano approvati dal Parlamento entro 60 giorni. Il Presidente del Consiglio viene nominato dal Presidente della Repubblica, la più alta carica dello Stato rappresentante l’unità nazionale, e di solito viene scelto all’interno dei partiti aventi la maggioranza in Parlamento. Dopo la nomina, il Presidente del Consiglio propone al Presidente della Repubblica le nomine dei singoli ministri con i quali andrà a formare il Consiglio dei Ministri, previo voto di fiducia da entrambi i rami del Parlamento. L’obiettivo fondamentale di tutta la mia analisi, però, è, oltre a quello di comprendere, sebbene in minima parte, l’evoluzione del termine “democrazia” nel corso della storia antica e moderna, quello di ricavare, proprio in forza di quanto lasciatoci dalla Storia democratica, una risposta esauriente all’interrogativo posto alla base dell’articolo. Per poterlo fare bisognerebbe capire cosa si intende per democrazia diretta e rappresentativa, l’una più vicina, idealmente, all’Atene classica, l’altra più moderna nella sua concezione. La democrazia diretta è quella forma di governo in cui i cittadini possono esercitare il potere legislativo, in assenza di intermediari e di interventi dei loro rappresentanti. Questo esercizio del potere è declinato in sei sostanziali strumenti a disposizione della collettività: il referendum abrogativo; il referendum confermativo o costituzionale; il referendum di iniziativa popolare che concede la possibilità di presentare un disegno di legge appoggiato da almeno 50mila firme, che poi deve essere comunque discusso dal Parlamento; la petizione; il referendum legislativo; infine la revoca degli eletti. Nella democrazia rappresentativa, al contrario, i cittadini aventi diritti di voto eleggono i propri rappresentanti in Parlamento o negli enti locali o territoriali (Comuni, Regioni), delegando a loro il potere di realizzare e di approvare le leggi.

L’Italia, per esempio, pur essendo una democrazia rappresentativa, prevede la possibilità di ricorrere ai primi quattro strumenti di democrazia diretta sopra citati. Arriviamo dunque all’interrogativo: nelle questioni che riguardano la collettività, è più saggio affidarsi a pochi esperti oppure è sempre bene prendere decisioni seguendo il principio democratico della maggioranza? Prendere decisioni all’interno di uno Stato comporta una grandissima responsabilità, e implica, proprio per questo, profonda competenza e conoscenza, necessarie al fine di valutare le varie ipotesi in discussione, scegliendo quella che più persegua il bene ultimo della comunità. Atteso che sarebbe impensabile e utopico credere che l’intera collettività sia sufficientemente competente e adatta a questo ruolo, alcuni infatti lo saranno di più, altri di meno, ci troviamo di fronte ad un problema: da una parte è significativo interpellare la pluralità di soggetti interessati, anche se non tutti capaci di esprimere un pensiero esperto ma ugualmente valido, dall’altra è altrettanto cruciale l’intervento di specialisti, in grado di prendere decisioni che possano realmente contribuire allo sviluppo economico, politico e sociale dello Stato. La democrazia diretta ateniese era fortemente sbilanciata verso una delega del potere decisionale al demos, il quale in quanto rappresentante esso stesso della polis, anche sotto il profilo politico, si autodeterminava. Questo funzionamento era possibile anche perché, come accennavo, la scissione tra cittadino e Stato, nel senso di entità politica, non era pensabile, e dunque era del tutto naturale affidare l’incarico deliberativo ai cittadini, che avrebbero peraltro subito in prima persona le conseguenze positive o negative delle loro decisioni. In questo modus operandi però c’era una falla: molto spesso accadeva che si formassero gruppi di cittadini più potenti, soprattutto sotto il profilo economico, che influenzavano il voto del collegio a favore della propria linea politica e degli interessi personali. Per antitesi un sistema oligarchico o tirannico, affiderebbe tutto il kratos nelle mani di pochi individui, ossia i ricchi, oppure, nel caso della tirannia, nelle mani di uno solo.

Ci troveremmo così ad affrontare un problema di conflitto di interesse oltre che un problema di totale antidemocraticità di un sistema di potere di tal genere. Bisognerebbe quindi trovare un punto di incontro fra le due posizioni, una specie di sofocrazia democratica, ovvero ciò che dovrebbe essere il nostro attuale ordinamento: una democrazia rappresentativa che però si avvale anche di strumenti propri della democrazia diretta, in altre parole un potere deliberativo affidato non direttamente, ma indirettamente al popolo, mediante la presenza di rappresentanti, eletti per consenso popolare, in grado di fornire un parere esperto e competente circa le svariate questioni che coinvolgono l’amministrazione del nostro Stato. In questo modo si ottiene un perfetto bilanciamento, capace di garantire stabilità e prosperità all’intera comunità, almeno de iure.

Autore

Direttore Antonio Filippo Gentile

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