Il 25 aprile 2024 alcuni studenti della redazione del giornalino hanno intervistato il Professor Alessandro Barbero in occasione della Festa della Resistenza, iniziativa promossa dal settimo municipio. Tra gli ospiti della giornata, oltre al Professor Barbero, erano presenti anche Corrado Augias, giornalista e scrittore, e Ascanio Celestini, attore e regista.
D. Quali sono le sfide nella ricerca storica sulla Resistenza, specialmente riguardo alla disponibilità delle fonti e alla narrazione dei fatti?
R. Il problema principale non è la disponibilità delle fonti, perché tutto ciò che è fonte d’archivio, come i documenti prodotti dalle varie organizzazioni, è largamente accessibile, quindi è disponibile tantissimo materiale su cui poter lavorare. Naturalmente la Resistenza è anche una vicenda che può essere ricostruita avendo a disposizione, per fortuna, una gigantesca quantità di memorie di coloro che erano da una parte e di coloro che erano dall’altra. Dunque il problema consiste nel fatto che, quando una fonte è memorialistica, bisogna stare molto attenti a non prendere alla lettera quello che viene raccontato: in queste situazioni chiaramente ognuno appartiene a un partito e deve difenderlo. Ma seppur in buona fede, la memoria delle cose più emozionanti che noi abbiamo fatto nella vita, nell’arco di qualche anno si reinventa da sola senza che noi ce ne accorgiamo. Paradossalmente, quindi, è proprio il fatto che abbiamo una quantità gigantesca di testimonianze di quelli che c’erano a rendere una sfida impegnativa fare la storia di quegli avvenimenti.
D. Come possono gli insegnamenti della Resistenza essere applicati ai conflitti contemporanei e alla lotta contro le oppressioni?
R. Contrariamente all’opinione comune, noi storici non studiamo la storia per trarre delle lezioni, ma perché ci sembra fondamentale, oltre che appassionante, sapere che cosa è successo nel passato; ciò, al massimo, dovrebbe essere compito di chi si propone di condurre una guerra partigiana. Se proprio volessimo trarre degli insegnamenti dalla ricerca sulla Resistenza, questi sarebbero per esempio lo stare attenti a non confondere le cose e quello di utilizzare i termini Resistenza e guerra partigiana in circostanze ben specifiche: essi hanno senso quando un paese è stato sconfitto e occupato militarmente da un nemico. La Resistenza non consiste semplicemente il fatto che un paese venga invaso da un altro e che naturalmente il paese combatta e resista, ma si compone di gruppi armati e nati spontaneamente; questo tuttavia non vuol dire che non possano avere dei collegamenti con ciò che prima era il legittimo governo e le legittime milizie di quel paese, che però in quel momento sono state dissolte. L’altro insegnamento della Resistenza consiste nel fatto che più è odiato e crudele il nemico che occupa e più la resistenza sarà forte. Tant’è vero che nelle guerre di un passato più remoto non ci è pervenuta nessuna fonte che dica che in un paese invaso ci fossero movimenti significativi di resistenza armata: quando un re del Settecento conquistava una provincia di un altro regno, una volta finita la guerra, ai sudditi importava poco. Quando invece le guerre cominciano ad essere di carattere nazionalistico, da Napoleone in poi, nel momento in cui il popolo veniva chiamato a combattere sulla base dell’idea che l’indipendenza della patria è la cosa più importante di tutte, allora si può notare che un’invasione non è accettata dalla gente come uno dei flagelli inevitabili della vita, ma che invece vuole lottare, tanto più quando si aggiunge un’altra dimensione ideologica come il nazismo, il comunismo e via discorrendo.
D. I partigiani, oggi considerati degli eroi, hanno agito talvolta al di fuori della legge. Quando secondo lei è accettabile farlo? Quali libertà devono venire meno?
R. Anzitutto bisogna fare attenzione e distinguere due aspetti: il problema relativo al fatto che il singolo individuo abbia il diritto e forse anche il dovere di non rispettare una legge che la sua coscienza considera iniqua, e il discorso della Resistenza. Il primo punto ha cominciato ad affermarsi già a partire dal processo di Norimberga; è molto problematico perché, appunto, non può essere tradotto semplicemente nel dire che ognuno decide liberamente di ubbidire alle leggi, ma c’è bisogno che ci sia un dilemma morale veramente drammatico. Tuttavia è chiaro che un qualsiasi tedesco che nel Reich di Hitler avesse deciso di non accettare la legge secondo cui gli individui con disabilità mentali andassero uccisi e faceva di tutto per boicottarla faceva né più né meno che il suo dovere. I partigiani in realtà non erano né al di fuori né contro la legge, questa è una falsa informazione diffusa dagli occupanti; in Italia, ricordiamolo, c’era uno stato legittimo, screditato ma democratico, ovvero quello del re, a sud, nella parte occupata dagli alleati e cobelligerante con loro. Era un’istituzione in cui erano rappresentati tutti i partiti antifascisti, e per questo avevano nominato delle autorità del legittimo governo italiano nel paese occupato dai tedeschi, anche se agli occhi di questi ultimi erano invece dei criminali. Dunque operavano in una situazione di perfetta legalità, così come i tribunali da loro organizzati, che negli ultimi giorni della guerra e nei primi giorni dopo il 25 aprile hanno processato e giustiziato un certo numero di fascisti in quanto legittimati dallo Stato italiano. Un ringraziamento speciale a: Lorenzo Langiano, Giulia Mingozzi, Alessandro Selda, Leonardo Soffientini per aver reso l’intervista possibile.