“LATINORUM” LINGUA FRANCA – PARTE PRIMA

Divide da tempo gli animi una difficile questione: se il latino ed il greco abbiano posto nella scuola moderna[1]. Qualunque sia la risposta, vogliamo qui proporre qualche simpatico aneddoto, spigliato ma non sciocco, sull’utilizzo del Latino nella conversazione quotidiana. La qual cosa parrebbe oggi una chimera, e non a torto, se continuiamo a ripeterci che il latino è lingua morta, e nell’insegnarlo ed apprenderlo vogliamo persuaderci che serva ad aprire la mente come la programmazione informatica o i freddi enigmi logici – sed de hoc satis, perché non vorrei che una semplice compilazione, “rotti gli argini”, si tramutasse e quasi “un fiume spumante, uscisse e travolgesse nel gorgo tutto ciò che si frappone”, come scriveva Virgilio.

Basti dire che il latino per secoli fu lingua viva e mezzo d’unione, come oggi è l’inglese. La comparazione non nuoce affatto, ed anzi giova non poco a comprendere che quel “latinorum”, come lo chiamava Renzo, fu per gran tempo “di parlar sì largo fiume”, che il Mureto, erudito del cinquecento, poteva definirlo “nummus universalis”, moneta universale valida per ogni dove, assai diversa dalle valute fisiche, “che al terzo o al quarto giorno di viaggio van cambiati”. Un linguaggio utile prima che bello; che, prima di rinvenirsi nelle orazioni di Cicerone, corse per le bocche di tutti, come “a Paris l’esprit court les rues”.

 Veniamo quindi ai tre brani. In grassetto, tra parentesi, qualche mia nota di commento o traduzione.

Il primo narra dell’incontro tra un professore Tedesco ed un Italiano, il Panzini, nel 1907; lo traggo da un romanzo vivido e freschissimo, “La lanterna di Diogene”, un lungo viaggio in bicicletta con villeggiatura: romanzo ch’è davvero una fulgida perla di giocosità letterarie. N’emerge l’agile prontezza della lingua latina, che ancora al principio del ventesimo secolo era strumento di conversazione per i borghesi mediamente colti. Al racconto consuona la copertina di questo articolo: un dipinto a pastello di Federico Zandomeneghi, pittore ottocentesco, garibaldino, macchiaiolo, gentile cantore di una realtà favolosa e dolce.

“Così io era assorto e a stento chiudeva il varco alle lagrime, quando una voce, proprio di quelle inarmoniche voci tedesche a scala fonetica crescente, mi scosse da quel sogno, domandandomi:

 — Questa è Dora Riparia?

Rivolsi gli occhi: un placido teutonico, dalla barba dorata, stava vicino a me: una mano teneva il Baedeker (guida tedesca per stranieri in Italia), l’altra indicava i fili argentei dei fiumi, che oramai si perdevano nelle ombre del lento crepuscolo.

«Al diavolo te e il tuo Baedeker», dissi mentalmente: ma come meglio fissai il mio interlocutore vidi che due azzurrissimi occhi a fior di testa mi guardavano. Pensosa e nobile era quella fronte teutonica. Egli attendeva umilmente risposta alla sua domanda.

— Questa è Dora Riparia?

Supponendo che la Dora Riparia fosse per lui uguale alla Baltea, indicai quel fiume che meglio si distingueva.

Rispose con un “crazie” pieno di profonda riconoscenza.

— Grazie, — dissi io, correggendo per effetto di antica abitudine.

— Oh, grazie, signore; niente crazie, — mi replicò con profonda effusione, questa volta. — Io, — proseguì egli, — Rudolf Meyer, professore di Gymnasium, venuto in Italia anche per imparare italiano. Dimandare sempre: Come dicete voi questo?

— …. dite….

— Ah, sì, dite! Domandar sempre, ma nessuno correggere….

— …. quando sbaglio…. — suggerii.

— Oh, sì, quanto spaglio, ma dire tutti: «dicete come ti piace!»

(Onesto teutonico, — pensai fra me, — questa non è soltanto la terra degli aranci, ma anche del «dicete e facete come ti piace».)

Tuttavia proseguire più oltre nel discorso non era possibile, perché il mio vocabolario tedesco era così ricco come il suo di vocaboli italiani. Fu egli allora che, appiccicatomisi per riconoscenza dell’indicata Dora, mi propose di parlare latino.

Questa proposta mi lusingò perché evidentemente io dovetti sembrargli uomo erudito e per bene, benché il mio abito fosse molto negletto. Veramente anche lui, con quel solito mezzo verde, dalle cui falde venivano fuori due piccoli calzoni, sospesi sopra, due scarpe da montanaro, non era molto elegante. Lusingato dalla sua penetrazione (dal suo acume), mi sentii indotto a considerarlo come uno degli ultimi rappresentanti di quei germanici azzurri, imbevuti ancora di filosofia e di ideologia, i quali vanno lasciando il posto ad altri nuovi germanici, mercanti e guerrieri: anima dell’antico Arminio che risorge (condottiero germanico che nel 9 d.C. a Teutoburgo annientò tre legioni romane capeggiate da Varo). E più mi persuasi che egli fosse un gentile teutonico quando mi disse che con la venuta in Italia scioglieva un lungo suo voto.

Il latino ci affratellò. Che latino fosse, non rammento. Merlin Cocaio (Teofilo Folengo, poeta in latino maccheronico nel 1500) rideva di gusto; il già mio maestro, G. B. Gandino — dall’Eliso (regno dei morti beati nell’antichità classica) ove ora dimora insieme con Cicerone — crollava il capo protestando; ma latino doveva pur essere giacché ci intendevamo; anzi, accalorandosi il discorso, le parole vennero fuori dai nicchi chiusi della memoria più fluide che io non avessi mai supposto.

Fra i miei periodi ricordo questo: «Noli in isto ostrogotico Bèdeker quaerere Italiam, domine professor: hic nomina tantum continentur; anima rerum non continetur. Poetae nostri humanissimi erunt tibi handbuck optimi: Dante, Manzoni, Carducci» (“Non cercare l’Italia nel Baedeker – guida turistica dell’Ottocento – o professore: lì non ci sono che nomi, ma la vita non c’è! La miglior guida saran per te i nostri più eccelsi poeti: Dante Manzoni e Carducci”).

Il buon teutonico, ricordo, aprì il volto ad un sorriso pieno, sereno, quasi infantile. Si discese in compagnia a Torino e si propose di cenare insieme.”

NEL PROSSIMO ARTICOLO I SUCCESSIVI DUE ANEDDOTI


[1] Da anni, anzi secoli e millennî, si discetta senza posa a tal riguardo. Al più, si può richiamare alla mente quel simpatico detto di Guglielmo II, imperatore tedesco negli anni novanta dell’Ottocento, che “noi si deve educare giovani tedeschi, mica greci e latini!”: e veramente nei licei del tempo c’erano più ore adibite al Greco che al Tedesco. I Tedeschi poi son sempre stati, almeno dall’Ottocento in giù, l’estrema rocca delle arti liberali; ciò che in una lettera del 1882 osservava anche il Minghetti, illustre politico italiano, trattando del Latino come lingua d’insegnamento nelle università: “Nelle Università si tenne duro in Germania fino a questi ultimi tempi, ma quando l’Italia novella abolisce il latino nelle Università, quando la Francia sopprime l’anno scorso – sic – l’orazione latina nella solenne distribuzione dei premi, perché dovranno i Tedeschi tenere in maggiore onore questa lingua?”. Di simili indirizzi che andava prendendo la società moderna si sdegnava il Foscolo già nel 1801, con quel suo terzo sonetto sulla “sentenza capitale del gran consiglio cisalpino – il governo francese, scilicet – contro la lingua latina”, colla quale si metteva al bando l’insegnamento del Latino nelle scuole.

Autore

Leandro Stroppa

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