LATINORUM LINGUA FRANCA – SECONDA PARTE

Seguitiamo col secondo testo; come sopra, non mi limiterò che a qualche nota introduttiva, di traduzione e commento. Sebastiano Ciampi, uomo di lettere vissuto tra il 1700 e il 1800, si recò nella estate del 1830 in Polonia, trascorrendo gran parte d’Europa. Si fermò altresì in Germania, al tempo ancora Prussia; e pervenne in Baviera, dove gli capitò il curioso episodio che qui c’interessa. Il Ciampi fu un erudito di antico conio, di quelli che parlavano latino più che italiano, ed ignoravano al tutto le lingue moderne – il che cagionò qualche malinteso al Ciampi, come vedremo; di quelli che, davanti a qualunque pietruzza di qualunque paesello, sapevano recitarti le più minute curiosità archeologiche ed antiquarie; di quelli che, per intenso colloquio coi loro autori, avevano la citazione giusta per ogni evenienza; di quelli che tenevano a memoria centinaia di versi e luoghi di scrittori classici, potendotene citare perfino le virgole – al qual proposito, c’è un simpatico brano di Alfieri dal capitolo II dell’Epoca II della sua autobiografia: “Verso il novembre (1759) […], per quanto quel metodo di mal intesi studi lo comportasse, mi rinforzai bastantemente nella lingua latina. L’emulazione mi si accrebbe per l’incontro di un giovine che competeva con me nel fare il tema, ed alcuna volta mi superava; […] (in più) mi vinceva sempre negli esercizi della memoria, recitando egli sino a 600 versi delle Georgiche di Virgilio d’un fiato, senza sbagliare una sillaba, e non potendo io arrivare neppure a 400, ed anche non bene; cosa di cui (io) mi angustiava moltissimo”.

Però non voglio scadere in una laudationem temporis acti, e allora ricorderò che spesso la prodigiosa memoria di un qualunque Pico della Mirandola fu dovuta alla difficoltà materiale di reperire i libri: oggi, per fortuna, non abbiamo più problemi simili. Su questa nota torniamo al brano di Sebastiano Ciampi, cui si rifà il quadro in copertina, “Il farmacista” di Pietro Longhi:

“Intanto io me n’andava in giro per quella città (Offen, al confine della Baviera). Non parlando la lingua tedesca bisognava che mi aiutassi con la francese; ma non è intesa lì se non che da pochi, e molto meno (è intesa) la lingua latina o l’italiana. Veduta una farmacia, dove sogliono stare a crocchio (a conversare) i discepoli d’Esculapio (i medici), ed anche agli stessi farmacopoli (farmacisti) non suol essere affatto ignoto il latino, almeno per leggere le ricette, vi entrai colla speranza di farmi in qualche modo capire. Eravi il solo padrone; e dopo una scappellata (si tolse il cappello) gli dissi in grosso latino: “Faveat dominatio vestra mihi dicere utrum sit in hac civitate aliqua Ecclesia caeteris pulchrior” (“Vogliate essere così gentile, signore, da dirmi se in questa città c’è qualche chiesa in particolare che meriti di essere vista”), ed egli cortesemente risposemi: “Ja-Ja”, e voltandomi le spalle aprì una piccola porta per la quale entrato non so in quale stanza, non lo vidi più quasi per un quarto d’ora. Io mi figurai che fosse occupato in cercarmi qualche guida del paese; alla fine ritorna con una scatola che dalla solita forma compresi contenere dell’erbe medicinali, od altra cosa di tale specie, immaginandomi che nell’urgenza di cercar qualche medicamento avesse finita la sua risposta col dirmi di sì, senza prendersi altro pensiero; e già (io) me n’andava, quando fattomi cenno di avvicinarmi al banco presentommi (mi presentò) non so quali pasticche; ed io soggiungendo pure in latino che aveagli domandato se fossevi una Chiesa più bella delle altre, e che non cercava pasticche, risposemi: “Crai, Crai” (“Ora, Ora”), e da capo se n’andò per la medesima strada, riportando un’altra scatola; allora con qualche impazienza me n’andai lasciandolo a borbottare non so che in lingua tedesca. […] Questo incidente servì, come suole accadere, a farci ridere per qualche tempo. Era tra que’ compagni un tale che parea essere ecclesiastico, e che per lunga pezza (per molto tempo) rimase taciturno; finalmente cominciò a parlare in tedesco con gli altri. Gli domandai in latino se parlava latino, od italiano, o francese; risposemi così: “Zerte loquor latine: zum dissipulus Zizeronis, loquor latine” (“Zerto ke parlo latine, zono discepolo di Kikerone, parlo latine”). A questa risposta cominciai cum timore et tremore a parlargli in latino rispettando lo scolaro di Cicerone, ossia, come parvemi aver voluto dire, un latinista che avea fatto studio sullo stile di Cicerone. Ma non mi rispondea se non che raramente qualche parola, e non bene a tono. Egli rivolse alla fine il discorso ad uno de’ compagni che parlava tedesco, e lo pregò di farmi sapere che egli non capiva bene il mio latino pronunziato alla maniera italiana; e così finì la conversazione latina col discepolo di Cicerone; che, da quanto mi fu detto poi, era un ludimagistro (maestro di basso rango) di lingua latina nella scuola d’un certo Castello pel quale passammo; e dove ci lasciò, andatosene pe’ fatti suoi.”

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Il terzo è un breve aneddoto autobiografico, scritto sempre dall’Alfieri, alquanto spiritoso e candido. Giacché non tutti gli alunni crescevan bene con quell’educazione gesuitica; l’Alfieri, poi, meno di tutti, indisciplinato com’era.

“La serata si lesse al crocchio (mentre si conversava) un estratto di Bacone (scrittore del sedicesimo secolo) in latino. Io non intesi quasi nulla; onde finsi per giustificazione dell’amico amor proprio, talor di sonnecchiare, talor d’esser distratto”.

E, due giorni appresso: “Fui all’università per ozio e curiosità ad udire una laurea teologica. Disputava il padre Beccaria; facendo egli alquanto il buffone, rideva tutto l’uditorio; io pochissimo intendea della disputa per esser latina (perché era in latino): (io) non mancava però di sorridere e ridere con aria d’intelligenza a proposito (al momento giusto)”.

Autore

Leandro Stroppa

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