NINÌ – Quinta puntata del racconto

Una rosa era resistita, nell’ aiuola davanti la stazione, a tutto l’ inverno. Brillava, dopo i petali piú esterni, sgualciti e aperti, che cadevano verso il basso, il centro dal colore più scuro, racchiuso e speciale. Una sola su un tronchicello bruno, ritorto e rugoso. Ninì la guardò qualche istante dal centro della strada, prima di seguire la mamma che si sbrigava verso i tornelli per i binari del treno. Il padre di Ninì non era tornato a casa quell’inverno, aveva trascorso vicino il posto di lavoro anche le domeniche, durante le telefonate si lamentava del caffè che prendeva nei bar che non lo soddisfaceva mai, discorreva fiero di un nuovo lavoro e salutava con un veloce smack la bambina, lontano due fili del telefono, lunghissimi e arrotolati Per andare a salutarlo quel giorno si era dovuto prendere il treno. C’era un cartellone blu accanto ad ogni stazione in cui il treno transitava o si fermava; il treno esitava nei pressi di città dai nomi corti e lunghi, famosi o ignoti; esitava nelle gallerie confuso o sfrecciava quando il panorama era bello; emetteva squittii a contatto con le rotaie, cigolava quando girava, vibrava al placido girare delle ruote, esplodeva in noiosi rumori nelle gallerie, tanto che Ninì si doveva tappare le orecchie. Il pomeriggio, un freddo compatto e gravido sulle persone e le cose, rotolò dolcemente tra l’autobus e il cantiere e una cena al centro di Milano, ché il cantiere distava un’ora dalla città. Ninì osservava lo scheletro di una grande costruzione. Le sue scarpe rosse furono accolte da polvere grigio-bianca, gli occhi da grandi quadrati di pietra marrone e le gru gialle altissime che trasportavano rettangoli neri. Da uno dei capannoni, delle tende pesantissime a coprire gli uffici e magazzini, uscì un uomo. Il fiore all’occhiello rosa deliziava sul suo gessato blu. Gli uomini, sullo sfondo, con le tute gialle si piegavano in su ed in giù come stantuffi e lanciavano con la pala la terra. Il paesaggio rurale sfumava in uno spiazzo enorme creato per i lavori tra il grigio chiaro della polvere. L’uomo con il fiore si mise degli occhiali. Una lunga vena rigonfia sulla tempia e le sopracciglia all’ingiù come una bocca imbronciata. Le rughe d’espressione su tutta la fronte. Ninì aveva i pantaloni arancione pastello a righe verdi e si slanciò sul papà con un balzo. Faceva freddo nel cantiere all’aperto ma sulle gambe di suo padre seduto dietro una scrivania grigia nel capannone c’era caldo e l’odore del caffè nero, portato in una scatoletta dalla mamma, era come l’odore del sole. Ninì era al caldo, e bisticciava con le mani il bel fiore rosa sul completo di suo padre. A casa di nuovo, c’era Camilla ad aspettarla per la domenica. Usò il telefono marrone nel salone per chiamare Amelia e uscirono alla volta del parco con l’altalena e il chiostro dei gelati. Il sorriso di Amelia disegnava delle fossette che andavano insieme a un guizzo degli occhi scuri e sembrava le fossero stampate impresse sul viso, perché non smetteva mai di divertirsi e agitarsi contenta. Continuò per tutta la strada fino al gelato, lungo l’attesa in fila e fino all’altalena, parlarono di vari ricordi e vaghi prospetti futuri senza fermarsi. Si fermarono forse pochi passi prima, in realtà, perché poi si slanciarono in una corsa, un affrettare di passi sulle mattonelle porpora intorno alle attrazioni, cercando di prendere prime il posto sull’unica altalena colorata di azzurro. Dopo alcuni gridolini e spintarelle tutte e due si posizionarono strette tra le due catene, pericolanti per l’assenza di appoggi, e cercarono di mettersi in piedi per dondolare veloce. Un giorno un’altra bambina nella loro classe aveva portato una radiolina di quelle antiche, regalatale dal nonno e scordata in soffitta per molto tempo; intorno allo strano oggetto enorme e pieno di bottoni tutti e venti gli alunni si erano accalcati in disordine a cerchio. E a ricreazione il cagnolone nero di Amelia era riuscito ad entrare dal portone di dietro, salutare tutti festoso e girare in tondo tra le piante e le erbacce in giardino, prima di essere scacciato dai maestri. I capelli ricci “a cavatappi” solleticavano la guancia di Ninì sull’altalena. Erano legati in una coda ma gonfi e prepotenti schizzavano fuori dall’elastico, lo scarabocchio a ghirigori disegnato da stormi neri di rondini. Nella calma piatta di gennaio pochi fringuelli e piccioni hanno preso il posto delle rondini che si tengono lontane; Amelia però scuote la testa come per negare, ché se ci sta lei con i suoi ricci allora tutte le rondini é come se tornassero in aria a scurire il cielo. Mentre si recava in bagno la mattina per lavarsi, un giovedì, Ninì rimase più di qualche attimo con la porta semiaperta, un porta pitturata di bianco, chiusa gentilmente con un sorriso quando Ninì riconobbe il suono del piano. La madre di Ninì suonava la mattina ore prima della scuola, il silenzio calmo dei sogni nelle stanze di sopra e una casa irreale dove nessuno vive sotto le scale, poi improvviso, prima flebile poi deciso e dolcemente forte il suono del piano, cominciava una ninnananna. La mattina la madre di Ninì suonava per sé, per sentire il bel suono di cui era innamorata, calma e pacificata dal sonno, forse anche per un’accortezza nei confronti della figlia, per non svegliarla con la stressante, continua, rumorosa lotta per studiare un pezzo nuovo. Dunque suonava, come un disegno a curve liquide, la tavolozza bianca, azzurra e nera. Ninì sentiva le note mentre gli occhi, stanchi di sogni, si preparavano, eccitati, a un’esperienza vera. Di ritorno a casa dopo le lezioni riprendeva i suoi esercizi e finiva tardi dopo cena perché a febbraio era stata progettata una serata di gala speciale con una scuola di danza russa ospite. Un giorno che il cielo era giallo spento, il sole già alto nel cielo prima dei sette rintocchi, e una foschia nascondeva le ultime stelle e Venere, i primi di marzo, era la festa di carnevale. Forse era un ricordo inventato o modellato grazie a delle foto ma quando Ninì, passato molto tempo, si sarebbe messa a pensare ai suoi sei anni la prima immagine e sensazione sarebbe stata quella di correre, il vento sulla faccia per scompigliare il sorriso, trai corridoi gialli della scuola, un vestito da principessa del ghiaccio per Ninì e da Ribelle per Amelia, che aveva anche un arco in legno costruito da sola con una cordicella bianca. Il cagnolone di Amelia uggiolava alle mille rondini che facevano vibrare le ali in cielo. Camminarono Amelia, cane e lo zio, lungo i marciapiedi grigi con le striscie segnaletiche rosse o per le strade pedonali con i sanpietrini, alcune sigarette o erbacce tra una pietra e l’altra. In mano e sotto i piedi e impigliati nel vestito i coriandoli. Lo zio di Amelia la prese sulle sue spalle, Amelia alzò in alto sorridendo il suo viso e si mise una mano in fronte come i pirati per vederla in faccia nello splendore di un sole quasi caldo. Ninì era altissima e si sentiva Cleopatra sul baldacchino, trasportata per vie, portoni e scale fino a casa dell’amica. Lo zio di Amelia ha un bel girocollo verde e jeans troppo corti, gli occhi tranquilli. Dopo carnevale, Ninì non vide Amelia a scuola per tutto il resto della settimana. Quando ritornò era triste e china su un suo quadernetto giallo che aveva ricevuto a Natale dall’amica; all’inizio della ricreazione Ninì la seguì in giardino. La trovò in un angolo, vicino l’albero del fiore d’angelo, il suo cane nero che piegava la testa pelosa sui suoi capelli, infilando il muso al di là del cancello, come se Amelia volesse confidargli un segreto e lui stesse accostando le orecchie per sentire e bisbigliarle nonsensi rassicuranti. Amelia si avvide degli occhi interrogativi nella bambina tre passi distante e avvicinò a sé le ginocchia chiudendole in un abbraccio.

Autore

Anita Elsa Carosi

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