Buio. Una lampada arancione in un finto candelabro e un armadietto verde diventato giallo spento. Gli interruttori si moltiplicavano uno di seguito all’altro dietro le porte o vetrate scorrevoli, la luce di una stanza si spegneva all’inizio della seguente. Dieci passi in avanti, alla svolta, Amelia con una giacca a vento caduta dalle spalle sulle braccia distese; quasi in corsa, poi, che si volta a gettare la giacca sul letto – porta a sinistra – e posare il berretto accanto al lavabo in cucina. Là un uomo, Ninì si ferma e mostra la sua semplice sbrigativa reverenza con un ciao della mano. Le rispondono gli occhi, che sembrano ingrossarsi quando lo Zio di Amelia ride e abbassarsi giù quando lavora al computer. Lo Zio porta una giacchetta a vento stropicciata come se fosse sferzata da una tempesta, tirata da una e l’altra parte prepotentemente, e sotto una camicia con tanto di papillon, poi dei pantaloni quadrettati fini una taglia più piccola, senza piega a lasciar intravedere dei calzini lunghi bianco panna e le scarpe lucidate a lungo. Un’andatura da signore distinto, raffinata ed esercitata con impegno a contrastare le sue gambe lunghe e magre, che lo facevano apparire dinoccolato come un equilibrista che sta per cadere giù dai suoi trampoli personali. Amelia scuote i suoi capelli sottili e scuri, l’acciaio arricciato di una vite, le rotte di rondini a gruppi; stava in settembre, gli alberi sulle strade coperte, appresso a quel cancello della scuola a suonare il campanello dal suono severo che non rispondeva. Era il primo giorno della scuola primaria, il quindici del mese, la luna a tre quarti era venuta a salutare l’inizio della stagione con una notte buia e coperta, ma poi si poté vedere la mattina dopo, vestita a sole grigio. Ninì dondolava la mano in quella del padre; girata di dietro scrutò la bambina riccia fuori il portone, dietro c’era lo zio, il suo papillon ridente, lo sguardo ai piedi e strattonò il padre per andare ad aprire. Una donna vecchia, piegata dentro un rigido vestito rosa sorrideva e gridava sulla scala, dividendo in cinque classi gli alunni delle prime. I più grandi a gruppi si attardavano, chi tra le carte, chi aspettando gli amici, chi mostrando lo zaino, la maglia, i capelli. Amelia era arrivata correndo, scompigliando le rondini, ora si rifugiava nelle tasche, conserte le braccia scure, pochi passi dietro lo zio – grazie, ci lasciavano lì per poco! – e stava timida ad aspettare il verdetto. Ninì la scrutava a fondo, i due occhi vetro inclinati. Stessa classe, 15 e 16 per l’appello, due banchi vicini andando in diagonale. Onde dell’acqua ancora abbacinate, nel rigonfio di una vita più semplice e primitiva, si videro, si piacquero e impetuose presero a giocare. Ninì mostrava le sue bambole, le sue medagliette appese al collo che tanto le piacevano, arrossiva per la vivacità delle parole e Amelia saltava, scherzava, stritolava un suo cane che la seguiva fido dalla casa al cancello ogni mattina e tornava indietro fiutando intento la strada e seguendo un percorso zigzagante tutto suo tra curiosità e indugi. La casa di Amelia era a cento metri dalla scuola, dietro la fermata del pulmino, che era nella strada più grande, accanto al giardino condominiale, riparato da tre meli e un piccolo fico, le foglie grandi e rugose. Amelia appende il guinzaglio al tronco del melo al centro e assieme a Ninì si sistema per terra tra foglie di platano, un grande omone sulla strada alberata che si incontrava ad angolo con quella del pulmino. La giovane età brillava sui visi belli, rossi, innocenti, con facce buffe e espressioni sincere. Gli occhi espressivi neri per l’una, mare per l’altra. Le stanze dell’appartamento dove abitava Amelia erano strette, oblunghe, e un lungo corridoio dalla spessa carta da parati gialla e viola illuminata con l’arancione e i mobili antichi decorati da specchi inscenavano uno spettacolo insolito, quasi pauroso, ma poi disarmato dalle finestre ampie nella cucina e la camera, i giochi ammonticchiati dolcemente in disordine. Lo zio salutava con un “ehi” buttato di traverso lungo una stanza a destra. Chiudeva gli occhi a fessura dietro gli occhiali e li abbassava su uno schermo molto luminoso e molto vecchio, la spina penzolava fuori circondata di nastro adesivo giallo che alle volte cadeva e scopriva i fili di rame. Poi si alzava e raggiungeva le amiche nella cucina, le lanciava in aria, le posava sulla sua schiena, in piedi sulle sue spalle, faceva il solletico. Poi serio si metteva a cucinare come se fosse lì lì per scoprire una gran cosa della scienza e bisognasse esser precisi, non fare errori. Amelia invece sciacquava i piatti da usare sempre con la testa riversa indietro, gli occhi neri nelle pupille di Ninì. Ninì regalava uno sguardo sbrilluccicoso e quello danzava e si dondolava nell’altra, che l’aveva strappata ad un suolo senz’erba e ora la trascinava in su è in giù per chine maestose. Gli occhi azzurri mai stati così ridenti la seguivano a bocca aperta in quadri: il cagnolone ha il guinzaglio strappato ed è rivestito d’azzurro, cammina su sole tre gambe in equilibrio e l’ultima la porge alla padrona, con i capelli al vento lunghi e ricci, come un veloce stormo di rondini che gira e gira per raggiungere e circondare tre rondini sparse e crea vortici e si piega rubando il cielo azzurro al suo splendore con i neri puntini che si allontanano rotolando. Le rotte sicure ma segrete, i capelli di Amelia si abbassano, una mano carezza l’animale e poi si butta in una corsa fingendo d’essere un cavallo inseguito da un pony. Il cuore espansivo di Amelia circondava Ninì e lei, come mai prima aveva provato, s’era sentita un’orfana che viene trovata e accolta in una casa, una casa di marzapane ma senza strega, un posto felice a riempire quel grande vuoto che aveva, scavato e allargato dai viaggi di lavoro del padre e il piano a coda della madre e i suoi giochi con soli secchielli. La casa bianca si stringeva attorno al vuoto ma s’apriva per lei la casa di marzapane; lo zio di Amelia nel suo papillon e i pantaloni senza piega strizzava gli occhi e lavorava al computer e lì si asfaltava una gelida strada, che avrebbe scombussolato enormemente Ninì. Per ora lei viveva la sua primavera, uno stormo di rondini a ricordare una bimba si divertiva con la città e degli occhi azzurri con capelli oro speravano che mai sarebbe tornato l’autunno.