SCHIAVITÙ ANTICA E MODERNA | Dalla schiavitù degli antichi al neocolonialismo dei moderni Europei

Questo breve articolo tenterà di individuare, per quanto possibile, un punto di congiunzione tra l’antica schiavitù del mondo spartano e ateniese e la moderna schiavitù europea, generalmente riconducibile al fenomeno del cosiddetto “neocolonialismo”, delineando un quadro di similitudini che attraversa decine di secoli di storia dell’umanità.

A Sparta, ad essere schiavo era l’intero popolo degli Iloti, prigionieri di guerra della Laconia e della Messenia, i quali si configuravano nel panorama giuridico-politico spartano come schiavi di proprietà dello Stato, assegnati ad ogni spartiato per poter coltivare la loro terra, i cui frutti venivano solo in minima parte trattenuti dal lavoratore-schiavo, quanto bastava perché mantenesse una corporatura non troppo robusta; la restante parte spettava al padrone. Ateneo di Naucrati, intellettuale egizio di lingua greca del II-III secolo dopo cristo, ci parla addirittura di schiavi che, oltre a svolgere tutte quelle attività rifiutate dagli spartiati, erano costretti ad indossare un berretto di pelle di cane insieme ad un abito di pelle, nonché a subire frustate annuali per ricordargli la loro intrinseca inferiorità e una condanna a morte qualora divenissero troppo floridi e gagliardi.
Inoltre, partecipavano come vittime sacrificali nella cosiddetta “κρυπτεία”, ossia una sorta di corso speciale di addestramento particolarmente violento e un rito di passaggio all’età adulta, che coinvolgeva quei giovani diciottenni di puro sangue spartano che avevano superato tutte le tappe dell’agoghé, il duro

regime d’istruzione riservato ai cittadini maschi. Inviati nelle campagne provvisti di un solo pugnale, questi giovani spartiati, il cui principale obiettivo era quello di sopravvivere, riposavano e studiavano i loro bersagli nelle ore diurne e di notte, come lupi famelici, uscivano e uccidevano il massimo numero di iloti possibile, magari quelli più massicci e corpulenti, cercando di non farsi cogliere in flagranza. Aristotele ci dice inoltre che ogni anno gli efori, appena entrati in carica, dichiaravano immediatamente guerra agli Iloti, allo scopo di sottolineare la legittimità legale e la purezza del loro omicidio.

Ad Atene, invece, lo schiavo era assimilabile a niente di più che una merce nelle mani di un padrone, vale a dire un individuo che non gode del diritto al nome anagrafico, del diritto di matrimonio, ma con la possibilità di costituire insieme ad un’altra schiava un piccolo nucleo familiare, sul quale vigeva, però, la potestà assoluta del dominus. Inoltre, lo schiavo ad Atene non guadagnava, fuorché un po’ di cibo, acqua e quanto bastava per sopravvivere in una capanna, con il permesso talvolta di svolgere alcune attività nell’ambito commerciale e artigianale, il cui ricavato veniva condiviso comunque con il padrone.

Aggiungo per concludere il cerchio un breve accenno a Roma, che non riteneva gli schiavi soggetti di diritto, ma meramente funzionali allo sfruttamento, soprattutto in età imperiale, nei grandi latifondi, che rappresentavano la piaga di un sistema economico romano lacerato dall’ingente disoccupazione della plebe urbana.

Ora, immaginiamo di attraversare secoli di storia dell’umanità e giungiamo al XV-XVI secolo, periodo in cui la maggior parte delle potenze europee inizia a progettare un’ espansione politico-economica su altri territori lontani, più arretrati, al fine di costituire delle colonie volte non solo al controllo politico, ma soprattutto allo sfruttamento delle risorse naturali, quindi minerali, gas, acqua, petrolio, terreni coltivabili, e umanitarie, ossia la grande e massiccia manodopera: gli indigeni d’America, schiavizzati e martirizzati per l’arricchimento dell’Europa, e gli africani, coinvolti nel “commercio triangolare” del XVII secolo. Dopo decenni, dal semplice “colonialismo” si passò ad “imperialismo coloniale”, ovvero la spartizione dichiarata dei territori occupati, in una logica di pieno controllo dell’ effettiva sovranità politico-economico-amministrativa di una società straniera, che, dietro al pretesto di ‘illuminare’, ‘indottrinare’ o ‘civilizzare’ le popolazioni autoctone, celava alcuni tra i peggiori crimini contro l’umanità che siano stati documentati in epoca moderna.

Soltanto nel XX secolo ebbe inizio quel processo chiamato “decolonizzazione”, attraverso cui gli ex Stati coloniali incominciarono ad ottenere la formale indipendenza politica, proiettandosi così, per quanto possibile, verso una completa emancipazione nei confronti degli ex Stati colonizzatori. Come però accade sempre nella storia, “niente si distrugge e tutto si trasforma”, dunque se da una parte gli ex Stati coloniali formalmente si affrancarono dai conquistatori, dall’altra iniziarono a stipulare con essi numerosi accordi commerciali e politici, che escludevano certamente un possibile ritorno del controllo militare, ma facevano ripiombare le loro economie in una dipendenza de facto nei confronti di quegli stessi Stati europei che li avevano dissanguati fino a pochi decenni prima. Vennero in questo modo gettate le basi per solidi legami finanziari ed economici, che diedero inizio al “neocolonialismo”. Questo fenomeno coinvolge principalmente il continente africano, oggetto di bramosia delle grandi multinazionali, che invece di favorire uno sviluppo sostenibile dei paesi sottosviluppati, mediante per esempio l’importazione di avanzate e nuove tecniche di produzione, continuano a danneggiare sotto il profilo umanitario, ambientale ed ecologico la popolazione e il territorio locale, serbatoio di manodopera a basso costo e di materie prime. Tutto ciò costituisce la vera causa dell’incessante aumento della disoccupazione, della povertà e del progressivo calo del reddito pro-capite registrato in questi paesi. In un quadro già così drammatico, non bisogna poi dimenticare il fenomeno del “land grabbing”, ovvero la progressiva acquisizione di terreni agricoli su scala globale nei paesi in via di sviluppo, mediante affitto o acquisto, di gigantesche estensioni agrarie da parte di imprese transnazionali, governi stranieri, o soggetti privati. Per comprendere le dimensioni del fenomeno, possiamo riportare una stima molto attendibile della scala degli investimenti in accaparramento di terreni, pubblicata a settembre 2010 dalla Banca Mondiale: nel solo periodo da ottobre 2008 ad agosto 2009 vengono dichiarate acquisizioni di terreni agricoli per un’estensione di 46 milioni di ettari (circa una volta e mezzo la superficie dell’Italia di 31 milioni di ettari), due terzi dei quali situati nell’Africa subsahariana, e tale numero è in rapidissima ascesa.

La creazione di questi “neo-latifondi”, tuttavia, come si potrebbe facilmente intuire, teoricamente dovrebbe attrarre nuovi investimenti, nuove risorse economiche, utili per migliorare anche le condizioni delle comunità locali, nella pratica però non fa altro che proseguire l’opera di depauperamento culturale e materiale ai danni dei nuovi schiavi del ventunesimo secolo: intere nazioni cadute involontariamente nella morsa del capitalismo sfrenato, impegnato nella massimizzazione dei profitti e nella minimizzazione dei costi, noncurante delle tragiche ed evidenti conseguenze umanitarie e sociali da esso prodotte.

In conclusione, non si può far altro che evidenziare quanto, nonostante l’enorme lontananza temporale che intercorre fra l’età cosiddetta “degli antichi” e l’età moderna, le cose siano restate parzialmente invariate; al contempo, però, sono avvenute molteplici trasformazioni: i paesi post-industriali e maggiormente sviluppati sono stati in grado di liberarsi dalla schiavitù, riconoscendo giuridicamente la mancata legittimità della stessa, pensiamo ai vari atti nazionali di abolozione della tratta degli schiavi, alle Carte costituzionali nazionali, al tredicesimo emendamento della Costituzione americana, e alla “Dichiarazione universale dei diritti umani”, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre del 1948. Tuttavia, sebbene nella gran parte del globo non esista più lo schiavo propriamente detto, è a conoscenza di tutti, ma volutamente celata, la persistenza in alcuni paesi di tale condizione, finalizzata ad assecondare le logiche neo-imperialiste sia delle multinazionali, sia dei governi apparentemente più democratici ed egualitari.

Autore

Dirett. Antonio Filippo Gentile

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