Scrivo queste righe con un intimo sconforto, che tuttavia non è riuscito ancora a spegnere la speranza ultima che queste parole, provenienti da un insignificante scrittore, possano influenzare virtuosamente gli animi dei miei lettori. C’è forse un solo problema però da affrontare prima di procedere con la questione in esame: il titolo. Sono consapevole che esso potrebbe risultare poco comprensibile a chi non intende il latinorum non solo per il suo significato letterale ma soprattutto per il contesto, ahimè a molti ignoto o per scelta o per caso, nel quale l’espressione dovrebbe essere calata, utile per afferrare la corretta interpretazione di ciò che all’apparenza potrebbe apparire di poco senso, ma che in realtà nasconde il più prezioso dei contenuti. Si tratta, infatti, di una frase scritta dal carissimo Seneca in una delle sue opere di maggiore valore filosofico-letterario perché mai anacronistica: il “De brevitate vitae”. “Suus nemo est”, “Nessuno si appartiene”, dunque è così che dopo una lunga meditazione ho scelto di intitolare l’articolo: tre parole di immediato impatto, di lucida chiarezza, di solenne sobrietà che urlano il dramma della nostra società, antica e moderna.
Chiarito il titolo, desidero giungere al nocciolo della riflessione cosicché il lettore possa saggiare sin da subito il tono e lo stile che caratterizzeranno le prossime righe. L’individuo sta perdendo la sua identità, la sta distribuendo come caramelle a tanti soggetti quanti sono quelli con cui esso viene in contatto. A ciò si aggiunge la moltiplicazione delle maschere e delle sovrastrutture fittizie di cui la vita dell’uomo dell’Antropocene si è riempita. Abbiamo distorto la concezione del tempo e non siamo più in grado di riconoscerlo. Abbiamo svenduto i minuti, le ore, i giorni, gli anni al mercato del tempo, nel quale la vita dei ricchi, dei poveri, degli sfortunati nella salute, dei nobili, dei perseguitati, dei giovani e dei vecchi, degli pseudo-liberi e degli schiavi appare nella sua disarmante tragicità: i sogni di felicità, le illusioni e le delusioni, i pianti e le ambizioni, vite trascorse a gareggiare come schiavi alle dipendenze del padrone denaro e del padrone potere, mai una vincita soddisfò tali sudditi e allora attesero l’arrivo della prossima
competizione… L’avvento dei social network e prima ancora di internet non ha fatto altro che esacerbare il problema pirandelliano: la costruzione di un proprio alter ego virtuale, spesso più “alter” che “ego” , è divenuta prassi comune se vogliamo sentirci “al passo con i tempi”. Beninteso, in ciò non ci sarebbe alcunché di male se non fosse che tale operazione di creazione di una nuova identità nasconda in realtà la volontà di proiettare nel mondo internettiano dei nicknames, come registi del proprio film, non tanto chi siamo, piuttosto chi vorremmo che fossimo, finendo per essere schiacciati dal peso dell’opinione di piazza nella società dell’immagine. In tal modo non è più l’individuo che descrive la collettività, ma è la collettività che descrive l’individuo in ogni parte della sua esistenza da schiavo. Pensi forse che Mark Zuckerberg non sia perfettamente consapevole di questi meccanismi umani? In fondo, tutti gli uomini amano desiderare, e desiderano sempre ciò che non hanno, quindi, poiché sempre insoddisfatti di ciò che già posseggono, sono divorati dall’invidia e dalla depressione, in risposta alla quale l’Instagram o il TikTok di turno offre una soluzione a cui il malato di spirito non può rinunciare: sostituire l’essere con l’apparire spezzando l’integrità della propria identità.
Interrogati quando ti trovi in piazza su quante ombre vedi dalla mattina alla sera, quanti corpi privi di essenza, quanta ingenua schiavitù aleggia tra le carte di una scrivania, tra i caffè di un bar, tra le chiacchiere di pseudo-amici, tra le tavole imbandite di cibo pronte ad essere vittime di qualche scatto fotografico. Così il tempo scorre inesorabile fino a quando giunge il momento così odiato dai più del bilancio di vita.
Il Gattopardo qualche decennio fa disse: “Ho settantatrè anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due… tre al massimo. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare. Tutto il resto: settant’anni.” Non c’è dubbio che le parole del Gattopardo descrivano con lucida chiarezza un bilancio in grave deficit, e se pensi si tratti solo di pura invenzione letteraria, purtroppo non posso che
notificarti il tuo madornale errore perché ti garantisco che ancora oggi in giro per le strade v’è un numero sempre crescente di gattopardi in cerca di un’ultima speranza di immortalità, ancora incapaci di vivere. Ora permettimi di prendere in prestito lo stile senechiano e di opporti a quanto detto l’exemplum del saggio: anche questo vive nella stessa società delle ombre di cui prima ti parlavo, tuttavia egli è capace di preservare ideali di dignità, di etica, di rispetto di sé e degli altri; egli non rinuncia a vivere, caricando su di sé il peso delle proprie scelte e non di quelle che la collettività gli imporrebbe; egli cammina a testa alta, consapevole della sua preziosa unicità propria di ogni individuo; egli cura ossessivamente la salute dello spirito oltre che quella del corpo; egli ritrova nel conformismo il più becero provincialismo al quale oppone con coraggio l’abilità critica, che si ostina a perfezionare costantemente; egli non ha pregiudizi, sempre pronto ad ammettere l’errore così come a portare avanti le idee in cui fermamente crede; egli si
accontenta di ciò che ha ma comunque non si tira indietro dal farsi catalizzatore di progresso individuale e comunitario, protagonista del cambiamento volto al reale miglioramento delle condizioni materiali e spirituali dell’uomo; egli valuta il tempo come un bene più pregiato del denaro; egli non ha paura della morte perché quando essa giungerà lui avrà già abbandonato questa terra; egli è e non appare.
Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che “il saggio” sia tutta una costruzione idealistica frutto della mia immaginazione, eppure ti dico che tutti noi siamo dei saggi in potenza, così come degli schiavi in potenza, e in ogni istante della nostra travagliata esistenza siamo chiamati a scegliere se partecipare dell’una o dell’altra dimensione.
Non credere a quanti ti hanno parlato o ti parleranno di destini già decisi, di saggi o schiavi per nascita; essi non fanno altro che rifiutare la responsabilità della scelta perché in fin dei conti è molto più facile essere il riflesso di un altro, come un attore che recita un copione già scritto, piuttosto che assumersi il rischio di compiere la faticosissima ricerca di sé, convinti di voler vivere una vita veramente autentica. Pensaci, tutti noi da bambini spesso bramiamo essere adulti, ma l’ironia della vita vuole che una volta adulti tutti vorremmo tornare bambini… Da piccoli non vediamo l’ora di raggiungere la meta della maratona, ma conclusa la corsa pretendiamo invano e con una certa presunzione di poterla ripetere.